Ovvero quando la ricerca di spazi ci fa diventare pazzi
Negli ultimi anni siamo diventati tutti geometri. Ma proprio tutti, anche nel contesto artistico e culturale cittadino. Urbanisti, architetti, periti edili, esperti di agibilità, tecnici 626, periti elettronici. Non esiste più un operatore culturale che non si senta investito di autorità urbanistica e questo per un paio di motivi, che si raccolgono tutti sotto l’unico detto del “necessità, virtù”. Capita sempre più spesso infatti di dover utilizzare spazi non adeguati per allestire spettacoli, concerti, proiezioni, incontri pubblici o quant’altro e di conseguenza gli organizzatori sono costretti a rendere agibile uno spazio che non lo è e soprattutto si ingegnano per individuare questi spazi non adeguati ovunque in città. E allora serate danzanti nei bar, musica dal vivo in piccoli soppalchi, proiezioni in sale dall’acustica impossibile, spettacoli nei musei, nelle chiese, nelle librerie, nelle terrazze, in case private e pubbliche, per strada. E tutti quindi alla ricerca di una sala mediamente grande, un luogo che regga uno stativo con una quarzina, una sala dove portare uno schermo decente e perché no, uno spazio per esposizioni. Tutto possibilmente in centro, possibilmente raggiungibile.
E questo avviene – paradossalmente – quando gli spazi tradizionalmente deputati allo scopo vengono utilizzati poco o per scopi diversi. Si è ironizzato per esempio sulla scelta di inserire il teatro dei Rinnovati tra le location che il Ccomune, a pagamento, concede per la celebrazione dei matrimoni. Questo non perché non sia un’idea buona o perché i matrimoni non debbano essere celebrati in teatro, anzi. Quel teatro c’è, è della comunità, è stato da poco ristrutturato e dobbiamo usarlo il più possibile. Tenerlo chiuso in naftalina non gli fa bene, ve lo garantisco. Ma perché aprirlo per i matrimoni e per la stagione ufficiale per poi tenerlo chiuso alle necessità artistiche che provengono dal territorio? Tenerlo aperto costa? Vero, allora proviamo ad utilizzare i proventi dei matrimoni per calmierare i costi di quello spazio alle compagnie locali. Il caso clamoroso è stata la giornata del teatro dello scorso mese: si è celebrato uno spazio, con visite guidate ed animazioni teatrali come se appunto fosse un museo, un luogo di per sé inaccessibile, quando invece un teatro deve essere il luogo vivo della produzione e della fruizione culturale (dove dentro ci sta tutto: teatro, letteratura, narrazione, musica, cinema, danza, movimento) di una città. Altrove i teatri sono aperti, si vivono ogni giorno con presentazioni di libri, spazi caffetteria, librerie, da noi li apriamo per le visite guidate ed i matrimoni. E per fortuna.
E allora facciamola una minima ricognizione, ad uso nostro, degli amministratori e degli operatori, degli spazi disponibili ed indisponibili presenti in città. Partendo però da un fantasma che aleggia su di noi sul quale si è voluto far ricadere le colpe di un’intera stagione di scelte di politica culturale, annullandolo dentro colpe che – povero fantasma – non ha. E sto parlando della Sala Lia Lapini, un grande spazio alle porte del centro che il Comune (prima Giunta Cenni, credo) ha preso in affitto da un privato per 45 mila euro annui ed a proprie spese lo ha reso agibile ed utilizzabile per spettacoli teatrali. Uno spazio disponibile quindi alle compagnie per 365 giorni l’anno, dove allestire gli spettacoli, produrre, non soltanto “mostrare”. La Lapini era infatti anche luogo di produzione di spettacoli che hanno circuitato (per citarne alcuni: Il Giocatore, Egum teatro; Sagome, La Lut; Il Custode, La Lut; Trattato dei manichini, Teatro Persona; Senza Lear, Isola Teatro). Lia Lapini era un premio intestato da Voci di Fonte per giovani compagnie di teatro di ricerca (dal 2008), là dentro è nato In-box che continua su scala nazionale, ed è nato il festival indipendente Teatropia, in quello spazio si sono succedute le compagnie locali TeatrO2, Straligut, La Lut, Topi Dalmata, Sobborghi, Ares Teatro, Cadaveri squisiti e altre.
Il problema della Lapini è stato gestionale, e le colpe stanno ricadendo sulle compagnie e soprattutto sul pubblico senese, si parla della Lapini oggi come uno dei grandi errori del passato: un costo certo, ma evidentemente indispensabile visto che da allora non si è trovata una soluzione altrettanto adeguata, eppure alla sua chiusura tutti si ripromisero di trovare una soluzione per le compagnie, una soluzione magari all’interno del patrimonio comunale. Per il 2016 il Comune ha affittato per 200 giorni l’auditorium di Sienambiente in via Simone Martini, al costo di 45 mila euro. Quindi stessi costi della Lapini per uno spazio a disposizione soltanto in determinati giorni ed in determinati orari, utilizzato anche dalla struttura proprietaria e da altri che la usano secondo accordi presi direttamente con la società dei rifiuti. Naturalmente lo spazio non è completamente adatto alle rappresentazioni, mancando di quinte e set luci. Ma il problema erano i 45 mila euro della Lapini.
Ma proprio non ci sono strutture pubbliche in grado di ospitare gli artisti? Adesso la farò un po’ lunga, ma cominciamo una ricognizione degli spazi disponibili alle diverse discipline: In passato si è tanto parlato del Mercatino Rionale di Camollia ex sede circoscrizionale, poi ceduto in parte alla Contrada dell’Istrice sul quale il Comune dovrebbe conservare l’uso del piano rialzato. Sempre a proposito di ex circoscrizioni si è parlato di quella di porta San Marco, dove nel frattempo si sono trasferiti alcuni archivi oltre all’archivio storico del Comune, ma anche lì gli spazi sono stati in parte discussi – e da tempo – per la cosiddetta Casa del Cinema, luogo di documentazione e formazione sull’audiovisivo. Ci sono poi alcune chiese utilizzabili per la musica, soprattutto penso alla chiesa di Sant’Agostino o alla chiesa del Santuccio, San Vigilio e San Giorgio.
C’è poi il grande tema del San Niccolò con l’eterna questione Corte dei Miracoli che ogni volta che passa un’emergenza la città e le istituzioni si voltano dall’altra parte, pensiamo poi all’auspicato recupero a fini culturali del padiglione Conolly, un panopticon che oggi versa in stato di abbandono, o della farmacia (il cui recupero è oggetto di una richiesta di finanziamento di ReteSpazzi, Lavoro Culturale e Culturing Eu con il bando di Culturability “Rigenerare spazi da condividere”). Qua in zona adesso è nato il Santachiara Lab, spazio di ricerca dell’Università di Siena che al proprio interno ha anche un buon auditorium (ed una gradinata esterna utilizzabile in estate), ma al di là della disponibilità e l’apertura mostrata dovremo comprendere costi e possibilità di utilizzo da parte degli operatori non “accademici”.
Ma perché non parlare anche dell’enorme spazio di via Tommaso Pendola, un complesso di proprietà dell’Asp, uno spazio quindi pubblico in gran parte inutilizzato, che ospita alcune associazioni, la sede dell’associazione dei sordomuti con una biblioteca storica e le attività della scuola d’arte per stranieri Siena Art Institute, una bella esperienza privata che potrebbe fare anche da attrattore di finanziamenti e di rinascita per quel luogo, che ha al proprio interno la possibilità di creare spazi per rappresentazioni specifiche ma anche sale di ritrovo per la vita associativa dei gruppi cittadini.
C’è poi il complesso Tolomei, nato come collegio dei gesuiti nel 1676 che oggi ospita l’istituto Rinaldo Franci, altra emergenza musicale cittadina. Anche qui, in accordo con la Franci, ci sono spazi che possono essere adibiti a rappresentazioni teatrali oltre che musicali o il cortile interno che potrebbe essere utilizzato per spettacoli estivi. In tutto questo manca l’arte contemporanea? In ognuno di questi spazi si può e si deve creare un dialogo tra arti, linguaggi ed espressioni, ma è innegabile che dopo la chiusura delle Papesse la città aspetta uno spazio adeguato all’importanza che l’arte contemporanea e la ricerca espressiva devono avere. Le Papesse (non a caso nate nella vecchia sede della Banca d’Italia) chiude nel 2009 e sotto le due direzioni di Risaliti e Pierini ha prodotto mostre che sono state all’attenzione nazionale ed internazionale, ha ospitato artisti di rilevanza mondiale fino alla sua chiusura, al suo interno sono nati Ars Nova e Radio Papesse, oggi tutto questo pare finito. Ci sono spazi privati, le attività della Galleria FuoriCampo che oltre alle esposizioni nel loro spazio di Salicotto hanno da anni avviato un dialogo col Belgio che in questi mesi si esprime nel progetto Itinera; l’esperienza della Contrada della Lupa che ha dedicato lo spazio superiore delle fonti di Fonte Nova a museo temporaneo curato da Eugenia Vanni e Fancesco Carone. Dedicata proprio alla spazio limitato (o alla mancanza di spazio) è anche l’esperienza di Serena Fineschi con la sua “galleria” “Caveau”, una nicchia nel muro nel vicolo del Coltellinaio. Insomma, attività ce ne sono, ma manca un riconoscimento valoriale e spaziale all’arte contemporanea cittadina. Eppure anche qua un luogo andrebbe indicato, ed è il luogo più naturale: il Santa Maria della Scala. Troppo spesso negli ultimi mesi si è voluto togliere il nostro complesso museale e monumentale dalla rete cittadina, quello spazio è e deve continuare ad essere luogo di produzione culturale ed i suoi destini non possono essere slegati da quelli della città. Ed infine i teatri. Perché – torno a dirlo – la prosa e la danza hanno bisogno di teatri, di spazi sufficienti ed in città ne abbiamo due comunali sottoutilizzati, troviamolo il modo di abbattere i costi di utilizzo, questo deve essere un impegno concreto su cui lavorare.
Giuseppe Gori Savellini
Ps- Per la ricognizione mi sono ampiamente rifatto ad un lavoro presentato nell’ultima campagna elettorale amministrativa da Sinistra Ecologia e Libertà. Non l’ho rubato, ne facevo parte ahimé.
Ps 2- Ma il teatro del Piccolo Teatro di via Montanini? Ma davvero non è possibile trovare un accordo con i proprietari come è stato fatto in modo tanto solerte con Sienambiente?
La foto, mia, ritrae l’affresco di Sano di Pietro nella sala delle Lupe. Qui San Pietro Alessandrino pare dire ai beati che lo circondano: bella questa città ma dove la metto?
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