Ovvero: il Padiglione Conolly e il governo della bellezza
Circa un anno fa si concludeva l’avventura di Siena e il suo doppio. Percorsi nel passato e letture del presente attorno a San Niccolò Città dei Matti, un seminario di teoria e critica della cultura che muoveva da una duplice congiuntura: la ricorrenza del quarantennale di Sorvegliare e punire, il celeberrimo volume di Michel Foucault dedicato alla nascita e allo sviluppo delle tecnologie di contenzione, e la presenza, nel cuore di Siena, di una delle cittadelle manicomiali più estese e significative d’Italia, corredata di uno dei rari esemplari europei ancora (più o meno) integri di Panopticon (Padiglione Conolly), il carcere criminale ideato dal giurista e architetto Jeremy Bentham alla fine del XVIII secolo e considerato da Foucault la matrice per eccellenza dell’ideale disciplinare.
L’incontro/scontro fra una riflessione teorica generale e la storia senese ha prodotto l’esperienza di ricerca più intensa della mia travagliata e precaria vita accademica. Due le figure locali che più di tutte hanno segnato la mia iniziazione: la storica della medicina e oggi assessore alla cultura Francesca Vannozzi, che ne ha minuziosamente ricostruito la storia e le cronache, e lo storico-testimone Gino Civitelli, che ha prestato servizio come infermiere per decenni nella struttura e ne ha vissuto in prima persona le lotte interne, dalla fondazione del sindacato degli infermieri alle rivoluzioni innescate da Franco Basaglia.
Grazie alla prima ho scoperto che quando, nel 1818, l’ex monastero venne adibito a manicomio, si trattava di un ricovero di circa trenta “mentecatti” (sifilitici, alcolizzati, mendicanti), che solo qualche anno dopo, in parallelo con la storia della nascente psichiatria, diverranno “folli”; che la storia degli psicofarmaci è molto recente (prima degli anni Cinquanta i metodi di contenzione erano puramente meccanici – catene, bavagli, sanguisuga – e le droghe erano utilizzate esclusivamente come anti-dolorifici); che il Padiglione Conolly non era destinato unicamente a folli criminali irredimibili ma ci finivano bambini con le coliche, donne gravide misconosciute dalla famiglia, internati comuni disobbedienti, rinchiusi per breve tempo come deterrente a future insubordinazioni. Grazie al secondo ho saputo che nel 1962 alle infermiere era ancora imposta la verginità, che pastori sardi e siciliani hanno passato lustri reclusi a causa del gap linguistico che li rendeva incomprensibili e incapaci a loro volta di capire, che il manuale per infermieri adottato presso il San Niccolò negli anni Sessanta indicava ancora come cause principali della follia “la naturale perversione femminile” e “l’insana aspirazione delle classi subalterne ad elevarsi alla pari di quelle dominanti”.
La “nascita della follia”, i rapporti di forza sottesi all’idea di devianza, il passaggio dall’azione sui corpi al controllo delle coscienze smettevano di essere un’astrazione intellettuale e assumevano il peso di una storia vivida e dettagliata, iniziata due secoli fa e interrottasi bruscamente nel 1999, con la (tardiva) chiusura della struttura imposta dalla storica legge 180. L’ex-cittadella manicomiale di Siena non contiene semplicemente edifici storici e materiali d’archivio: è la scatola nera della nostra storia, è bene comune perché detiene i fili di centocinquant’anni di trasformazioni radicali e vertiginose di cui siamo stranamente immemori, i riflessi e le zone d’ombra delle tante verità – giuridiche, sociali, politiche – dentro cui ci muoviamo e che diamo per scontate.
Ho salutato con entusiasmo l’iniziativa di Andrea Friscelli, lo psichiatra che con grande spirito civico ha raccolto la chiamata governativa a segnalare “luoghi pubblici da recuperare”. Allo stesso tempo, penso sia necessario riflettere a fondo sul senso della destinazione museale a scopo turistico paventata dalla lettera che io stessa ho firmato, e con convinzione. Ci sono molti modi di concepire un museo, così come ci sono molti modi di concepire il turismo. C’è il museo-teca, che trasforma il passato in un non-tempo asettico ed estetizzato, che fa il paio con il turista-consumatore, che mangia i pici, beve il chianti e rende omaggio alla cultura con scarpe comode e smartphone alla mano per vedere e fotografare il maggior numero di meraviglie senesi fino all’ora del meritato aperitivo. E poi c’è il museo-luogo abitato, capace di stimolare e potenziare una partecipazione attiva di utenti e lavoratori del settore, e il turista maggiorenne, interessato a conoscere piuttosto che osservare a distanza un passato esotico senza altre alternative che esclamare “che bello”, “che meraviglia”, “ma pensa”, “oddio”.
Nel caso in cui il restauro e la riqualifica vengano effettivamente avviate, spero che le istituzioni culturali locali contrastino con energia i sottintesi di un’iniziativa – significativamente nominata bellezza@governo.it e rivolta a “tutti i cittadini” – in cui tutto lascia pensare alla prima opzione. “Popolo” (e i suoi sinonimi politici: cittadinanza, cittadini, gente comune) e “bellezza” sono concetti pericolosissimi. Il primo è una ben strana categoria sociale, visto che chiunque prenda parola pubblicamente esprimendo una critica articolata e razionale, che vada oltre l’esternazione compulsiva, smette automaticamente di farne parte per diventare professorone, gufo o nostalgico degli anni Settanta. La seconda è un valore neutro, universale, accessorio (non c’entra con la vita), fuori dalla storia e al di sopra del bene e del male: prevede un’esperienza strettamente individuale, interiore, che dall’Ottocento in poi, passando per romanzi rosa, talk-show pomeridiani e riviste per signore, pare ingentilisca le anime e faccia bene alla persona (la “cittadinanza” non ha voce né pensiero ma è molto romantica).
Il popolo non è l’insieme dei soggetti, e la salvaguardia della bellezza non è il primo passo verso la salvaguardia della memoria: operatori culturali, lavoratori del sociale, studiosi, artisti, insegnanti, persone che per le ragioni più diverse potrebbero mettere le proprie competenze a disposizione della collettività e trarre vantaggio da quelle degli altri, non sono una massa indifferenziata né necessariamente singoli individui (ci sono le associazioni, i collettivi, i gruppi), non hanno bisogno che gli si chieda cosa trovano bello ma di essere posti in condizione di nutrire il e nutrirsi del sapere comune, di costruire reti invece di essere costretti alla guerra fra poveri per un posto di lavoro, un finanziamento, uno spazio, un bacino di clienti. Per quale ragione l’università sforna in continuazione emeriti archeologi, storici, antropologi, esperti di beni museali, se la prospettiva lavorativa si riduce di fatto al promoter e custode dei templi della bellezza? Recuperare il Padiglione Conolly e la (bellissima) farmacia liberty dell’ex-manicomio è un obiettivo primario e imprescindibile, ma è altrettanto urgente resistere a sbocchi che sembrano scontati e ineluttabili. Sarebbe una beffa salvare gli edifici e condannare all’oblio competenze, saperi ed esperienze maturate dalla città sul loro senso per il presente e per il futuro.
Ci sono, certo, i lavori encomiabili degli storici, fra tutti i già citati Vannozzi e Civitelli, ma quelle conoscenze, se non vengono mediate e divulgate con tutta la carica esplosiva di domande e problemi che comportano, diventano invisibili, come del resto i tanti progetti cittadini sul San Niccolò e più in generale su normalità e devianza. Fra gli altri: la cultura della differenza praticata dalla Corte dei Miracoli, associazione dallo statuto ambiguo e con molti errori alle spalle ma con l’indiscutibile pregio di fare da spazio-cuscinetto per categorie sociali deboli, migranti, comunità religiose prive di spazi di culto, artisti fuori mercato; i numerosi progetti sul teatro sociale promossi da LaLut e da Irene Stracciati; le ricerche degli antropologi del Crea e della rete sPAZZI, convogliate queste ultime nel focus reparto agitati de il lavoro culturale e oggi nel progetto HiStorytelling e partecipazione. è possibile contemplare un “museo” e un “turismo” che capitalizzino sinergicamente questo genere di patrimonio cittadino? Si potrebbe obiettare che questo discorso non c’entra niente con il possibile restauro paventato da bellezza@governo.it, ma il punto è proprio questo: il controllo, oggi, passa per la “non pertinenza” delle domande e per la cancellazione dei luoghi e dei tempi in cui porle.
Durante la tavola rotonda conclusiva di Siena e il suo doppio, l’antropologo Fabio Mugnaini ha concluso il suo intervento con una frase che dovrebbe orientare ogni progetto di riqualifica delle ex-strutture di contenzione: “Il crimine peggiore dei manicomi è stato far credere a tutti quelli che non erano reclusi di stare bene”. La questione-chiave rimane in fondo quella posta da Foucault e imposta dalla storia del San Niccolò: a quali condizioni un cittadino smette di essere un soggetto di parola per divenire un mero oggetto di sapere, che può essere detto ma non dire? Il precario culturale e il turista-voyeur hanno almeno una cosa in comune con il reo-folle: non hanno voce, possono lamentarsi ma non fare proposte, non esistono come interlocutori attivi ma solo come gestori e consumatori disciplinati. Se vince l’opzione bellezza, potranno al limite vendere e comprare un biglietto e guardarsi da fuori senza riconoscersi né essere riconosciuti.
Maria Cristina Addis
Ps- Questo articolo segna il primo contributo (o regalo) per la Bombacarta di Maria Cristina Addis, membro del Centro di Semiotica e Teoria dell’Immagine «Omar Calabrese» dell’Università di Siena e docente di Semiotica per il Design presso l’Università IUAV di San Marino. Si occupa di arti visive e performative contemporanee ed è autrice e traduttrice di saggi e articoli di teoria e critica della cultura. La sua azione intellettuale si muove dentro e fuori l’accademia e con questa formula ha dato vita nel 2015, assieme a Giacomo Tagliani, a Siena e il suo doppio, ciclo di incontri e riflessioni che partivano proprio dalla storia e dallo stato del San Niccolò di Siena.
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